Vi è mai capitato di trovarvi davanti a un bivio e non sapere quale direzione prendere? Continuare lungo una strada, convinti che sia quella giusta, per poi perdervi e sentirvi privi di forze? Vi sforzate, andate avanti, ma dentro di voi sapete che non è la via giusta. Eppure, continuate. Guardate i vostri compagni di viaggio procedere spediti e vi convincete che non è la strada ad essere sbagliata, ma la vostra convinzione.
Peccato che poi vi ritrovate in cima a un monte quando, invece, volevate raggiungere la spiaggia! Ci sono cascata diverse volte, ma con il tempo ho imparato ad ascoltare il mio istinto, anche quando, la mia scelta sembrava incomprensibile agli altri.
Perché è così difficile lasciare un lavoro tossico?
Col senno di poi, parlarne è facile. Siamo tutti bravissimi a dare consigli quando il peggio è passato. La verità è che, nel momento in cui ci troviamo travolti dalle difficoltà, ci lasciamo schiacciare dall’ansia e dalle circostanze fuori dal nostro controllo. Siamo sopraffatti da una routine lavorativa che ci impone di continuare a testa bassa, sperando che, prima o poi, qualcosa cambi. Così investiamo tempo ed energie in un lavoro che ci logora, spesso senza gratificazione professionale, mentre la nostra fiducia si sgretola lentamente. Iniziamo a pensare di non “valere abbastanza” per un aumento, un nuovo lavoro o altre opportunità. E intanto, l’ambiente lavorativo ci trascina sempre più giù, convincendoci che non ci sia via d’uscita e rischiamo il burnout.
Poi, ciliegina sulla torta, arriva il “Sì, Signore”, quello che ha preso il “Master in Lecchinaggio Supremo” con “specializzazione in Incompetenza Abissale”, e gli affidano le sorti del tuo percorso lavorativo. E lui (sì, quasi sempre è un lui) fa il bello e il cattivo tempo, soprattutto in tema di aumenti, carriera e ferie.
E tu? Ti pieghi, perché hai bisogno di uno stipendio. Con il trascorrere del tempo ti accorgi che il 20% delle tue entrate vanno in parcelle per il terapeuta. Avresti voluto usare quel tempo per affrontare i tuoi traumi (ne avevi già abbastanza di irrisolti di tuo), ma non puoi. Perché quando entri in terapia e ti chiedono “Come va?”, finisci per passare un’ora a vomitare episodi legati al lavoro. E la psicoterapeuta conclude: “Deve lasciar perdere, è come dare perle ai porci“.
Il coraggio di cambiare
E allora, che si fa? Ti armi di coraggio e cambi lavoro. Ti fai il segno della croce nella speranza di trovare qualcosa di meglio. Ma non sempre va bene. Negli ultimi anni, il numero delle persone lavorativamente frustrate è aumentato esponenzialmente e, in Italia, se non ti prostri ai piedi dell’azienda come un verme verminoso (per citare Pena e Panico in Hercules), ti devi quasi sentire in colpa. “Ringrazia che hai un lavoro, accontentati, fuori c’è la fila”; quante volte vi siete sentiti dire queste frasi?
Nel mio travagliato percorso lavorativo ho incontrato talmente tante persone “brutte e povere dentro” che, ad un certo punto, ho iniziato a chiedermi se valesse davvero la pena sacrificare la mia salute mentale.
Le nuove generazioni, in questo, sono avanti anni luce. Non accettano di lavorare in ambienti tossici. Questo approccio viene spesso bollato come “mancanza di voglia di lavorare”. Non è così. È rispetto per se stessi. Forse sono nata nella generazione sbagliata: non ho mai tollerato ingiustizie e prepotenze.
Scegliere il proprio percorso non è sempre semplice
C’è chi ha chiaro fin da giovane quale strada percorrere; chi lo capisce cammin facendo, ma ha paura di cambiare rotta; e chi, armato di coraggio (o pazzia, a seconda dei punti di vista), decide di esplorare sentieri totalmente nuovi. Io? Beh…Sono venuta al mondo “bella motivata”, ma con una cartina sbagliata e una bussola che puntava ovunque tranne che al nord. Un bel casino, non pensate?
Dov’è la novità? In effetti, non c’è; sicuramente non sono stata la prima, né sarò l’ultima a trovarsi in una situazione del genere. Questa è la vita e dobbiamo imparare a gestirla, anche se non è esattamente sempre semplice farlo. Ad un certo punto, però, dopo qualche schiaffo morale ed episodio funesto, tutto diventa più chiaro.
Jarabe de Palo, pace all’anima sua, aveva ragione quando cantava: “Dipende. Da che punto guardi il mondo, tutto dipende“
Si, perché, la chiave di tutto, la cosa fondamentale è comprendere che siamo noi a decidere che potere dare agli eventi che ci travolgono. E, se gli eventi in questione sono al di fuori del nostro controllo, non possiamo farci nulla, è inutile agitarsi, dobbiamo accettarli ed andare avanti facendocene una ragione. Stressarsi non risolverà la situazione. Bisogna scorrere come l’acqua, così dice Lao Tzu, ed imparare a fluire con il corso naturale delle cose, senza opporre resistenza.

Il campo minato degli imprevisti
Per me, la perdita del lavoro è stata un trauma difficile da digerire. Rientrare nel “giro”, poi, è stato un percorso a ostacoli. Ho accettato contratti precari e una notevole riduzione della mia RAL, affrontando colloqui spesso demotivanti con le “Risorse Umane”.
Ho perso il conto delle volte in cui mi è stato chiesto, più o meno velatamente, se avessi figli o intenzione di averne.
Di recente, ho assistito a un episodio emblematico: durante un colloquio per una sostituzione maternità, un dirigente ha scartato una candidata perché, testuali parole, “aveva famiglia e dopo 8-9 mesi sarebbe rimasta a casa”. Il tutto sotto lo sguardo silenzioso di una responsabile HR donna. Hanno assunto un ragazzo.
Questi episodi mi hanno portata a riflettere: vale davvero la pena sacrificare la salute mentale per un ambiente che normalizza certe ingiustizie?
Ritengo che il lavoro debba contribuire a rendermi una persona migliore: se mi incattivisce, non fa per me. Non mi interessa adeguarmi alla cattiveria e all’invidia presente in un ambiente lavorativo tossico.
Perché il benessere mentale conta più di un lavoro
Ad un certo punto, ho realizzato che continuare a sentirmi fuori posto non significava essere sbagliata. Anzi, la mia intolleranza verso certe dinamiche aziendali era il segnale che dovevo esplorare nuove possibilità. I miei viaggi all’estero hanno confermato i miei pensieri. Esistono realtà diverse, dove le persone condividono i miei valori. Non potevo più ignorarlo.
Così, alla tenera età di 44 anni ho smesso di cercare la “famosa luce” in un percorso che non faceva per me. Dovevo, ma soprattutto VOLEVO cambiare. Nessuno mi avrebbe teso la mano. Come mi diceva mio padre: “Se hai il mal di pancia, il dolore lo senti solo tu, non gli altri.” Crudele, ma vero.
La necessità di ritrovarmi
Così, stanca della situazione e decisa a scongiurare la depressione, sono giunta alla conclusione di chiudere progressivamente con il controllo di gestione per avventurarmi verso lidi inesplorati. Viaggerò, fotograferò ciò che mi fa stare bene e cercherò di costruirmi una realtà lavorativa più appagante.
Dopotutto, c’è sempre tempo per essere infelici, quindi che fretta c’è? Credo sia doveroso provare a ridisegnare il mio percorso professionale, puntando sulla crescita personale e scongiurando il burnout.
E se da una parte dovrò reinventarmi e ripartire da zero, questo non significa che l’esperienza fatta fino ad ora sia da buttare. Se non fossi abituata alla pianificazione in piena urgenza, difficilmente sarei riuscita in poche settimane a crearmi un budget di viaggio ed un itinerario per visitare da sola paesi del Sud-est Asiatico, o ancora essermi girata per quasi vent’anni le isole greche.

E voi, siete pronti a cambiare?
Se siete curiosi di sapere di più, seguitemi! Se invece non vi interessa, passate oltre, ma ricordatevi che se siete insoddisfatti della vostra vita, la frustrazione si riverserà nei rapporti con gli altri e, che vi piaccia o no, si innescherà un circolo vizioso in grado di inghiottire chiunque.
Dare priorità alla nostra salute mentale non è un delitto di cui dobbiamo vergognarci, soprattutto se, facendolo, anche le persone che ci circondano ne beneficeranno.
Io ho scelto di cambiare strada, di rimettermi in gioco. E voi, siete pronti a fare lo stesso?
Buona vita a tutti! – Elena –