La Fotografia di Viaggio: quando è il momento di fermarsi?
La tentazione di fotografare ovunque e chiunque è sempre in agguato, ma è bene ricordarsi di tenere a bada il “ditino”!
Lo scorso settembre ho visitato l’isola di Lemnos, nell’Egeo settentrionale, attratta dalle sue meraviglie naturalistiche: il deserto di Gomati, il parco geologico di Faraklou e il lago salato di Aliki. L’isola ospita anche una grande base militare, il che significa che alcune aree non possono essere fotografate o sorvolate con droni.
Un giorno stavo immortalando un mulino, consapevole che alle mie spalle ci fosse una di queste zone vietate. Nel frattempo, una coppia di inglesi sulla cinquantina scattava proprio in quella direzione, ignorando i cartelli di divieto. Io, già informata sulla restrizione, continuavo a muovermi per i fatti miei, il che pareva infastidirli. Al loro ironico “Thanks”, ho risposto candidamente: “Sir, haven’t you seen the sign? It is forbidden to take pictures in that direction, it is a military area”. Apriti cielo: hanno subito iniziato a lamentarsi. Ma visto che non amo chi ignora le regole e, se mi impegno, so essere anche particolarmente fastidiosa, ho deciso di non spostarmi, incappando di proposito in tutte le loro foto. Alla fine, ho suggerito di usare Photoshop per rimuovermi e ho fatto i miei vivi complimenti per la “superlativa educazione”.
Per quanto lo scorcio fosse interessante, non andava fotografato. Oltre a essere vietato, non era neanche intelligente farlo, considerando il via vai continuo di militari. Le regole vanno rispettate, ovunque nel mondo.

Fotografare i luoghi sacri: solo se concesso
Un altro ambito in cui non sempre è ammesso scattare foto è quello dei luoghi sacri. I cartelli di divieto sono ben visibili, eppure c’è sempre qualcuno che finge di non notarli.
Un esempio? Il monte sacro di Uluru, vicino ad Ayers Rock, in Australia. Per gli aborigeni Anangu, ogni piega del monolite tramanda una storia ancestrale. Alcune grotte sono accessibili solo agli uomini, altre anche alle donne, e alcune zone sono considerate troppo sacre per essere fotografate. Durante la mia visita ho rispettato questa regola, ma il turista di fronte a me, come si direbbe dalle mie parti, “faceva finta di pomi”. In altre parole, continuava a scattare imperterrito, ignorando i cartelli. Dopo l’ennesima foto, gli ho fatto notare il divieto con un semplice commento dal marcato accento italiano. Risultato? Un’intera comitiva che, in un silenzio imbarazzato e reverenziale, ha riposto le macchine fotografiche.
Non mi sono mai piaciuti i “furbetti” e io non sono “farina da far ostie”. Insomma, una combinazione esplosiva!
Fotografare le persone senza consenso non è saggio
Anch’io, ahimè, ho commesso questa “svista”. La voglia di documentare la vita quotidiana locale è forte, ma se non si è fotogiornalisti impegnati in un progetto mirato, è il caso di fermarsi e riflettere.
Se foste voi a vivere in condizioni precarie, vi piacerebbe essere fotografati ogni giorno dai turisti, sapendo che la vostra immagine potrebbe finire su Instagram per qualche like? Probabilmente no. La fotografia deve raccontare, non sfruttare. Deve celebrare la realtà, non ridurla a un espediente emotivo per acchiappare qualche like.
Ho imparato questa lezione a Bangkok: avevo notato fuori da un tempio, un monaco molto anziano, tremante, che versava dell’acqua in un secchio. L’immagine mi aveva colpito così profondamente che, d’istinto, ho scattato. Non ho mai avuto il coraggio di pubblicarla. Mi sono sentita come un avvoltoio in attesa che la fragilità della sua preda si manifestasse. Da allora, chiedo sempre il permesso prima di fotografare qualcuno in volto. Se è di spalle o non riconoscibile, scatto, ma solo se la composizione ha un senso.
I bambini: il tallone d’Achille della fotografia di viaggio
Scattare foto ai bambini locali è una tentazione forte, quasi irresistibile.
Lo ricordo bene: Zambia, 2005. Missione nei campi profughi con l’UNHCR. Bambini in fila dal medico, con la pancia gonfia per la malnutrizione. Bambini nei campi di grano che giocavano o che studiavano nelle scuole. Avevo 25 anni e scattavo con l’ingenuità di chi vuole raccontare una realtà lontana dalla propria. Quelle immagini furono poi usate dalla FAO per un report interno. Guardandole oggi, mi rendo conto di quanto fossi distante dalla consapevolezza che ho ora.
Settembre 2024, Chios. Stavo fotografando i mulini a vento nel villaggio di Vrontados quando alcuni bambini sono sbucati a tradimento, iniziando a rincorrersi proprio lì. Uno di loro zigzagava tra i mulini su un triciclo: una scena magica. La madre, assorta nel telefono, non se n’era nemmeno accorta. Sono andata verso di lei e le ho suggerito di scattare una foto. Non capiva, così le ho chiesto il cellulare e ho scattato io. Era felicissima. Mi ha detto: “Veniamo qui ogni giorno e non avevo mai fatto una foto come questa”. Abbiamo chiacchierato e, alla fine, ho immortalato il triciclo abbandonato, un ricordo che vale più di mille scatti. Sì, perché a volte dimentichiamo che un ricordo condiviso vale più di una fotografia.

Il rispetto conta più di una foto
La voglia di documentare un viaggio e l’emozione di catturare una scena unica sono comprensibili. Ma a volte è necessario fare un passo indietro. La fotografia di viaggio non dovrebbe mai diventare un atto egoistico, mirato a soddisfare solo il proprio desiderio di catturare immagini, senza considerare i sentimenti delle persone o la sacralità di un luogo.
Sta a noi, alla nostra intelligenza emotiva e alla nostra educazione, capire quando è bene fermarsi. Sebbene la fotografia di viaggio sia un modo straordinario per raccontare il mondo, non tutto deve essere immortalato per forza. A volte, il vero privilegio non è catturare un’immagine, ma rispettare e vivere il momento. A volte la scelta più saggia è abbassare la fotocamera e lasciare che sia la memoria, non l’obiettivo, a custodire l’emozione.
Se siamo in dubbio, chiediamo il permesso, interagiamo, viviamo il momento. Potremmo scoprire che i ricordi più belli non hanno bisogno di pixel per restare impressi indelebilmente nella nostra memoria.